ANTONIO LABRIOLA, L’UOMO E IL TEORICO.

Antonio Labriola

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Il 2 luglio 1843 nasceva a Cassino, in provincia di Frosinone, il filosofo socialista Antonio Labriola. Sarà maestro di Gramsci, amico di Engels e lodato da Trotsky. Nacque da una famiglia piccolo-borghese italiana che si trasferì presto a Napoli dove Labriola, nel 1861, si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia, qui studia con gli hegeliani Augusto Vera e Bertrando Spaventa dai quali fu molto influenzato. Labriola non concluse gli studi universitari: nel 1865 conseguì il diploma di abilitazione e insegnò nel ginnasio Principe Umberto di Napoli; il 23 aprile 1866 sposa Rosalia Carolina von Sprenger, una palermitana di origini tedesche e di confessione evangelica, maestra nella scuola “Garibaldi” di Napoli, da cui ebbe tre figli: Michelangelo Francesco, Francesco Felice Alberto e Teresa Carolina. Inizialmente Labriola, se pur hegeliano, era un liberale di sinistra che, infatti, aderì al “Unione Liberale” di Rocco De Zerbi, direttore del quotidiano napoletano “Il Piccolo”. Nel 1873 si trasferisce a Roma, dove il figlio Michelangelo muore di difterite, nel 1876 pubblicò il saggio “Dell’insegnamento della storia” e l’anno dopo diviene direttore del Museo di istruzione e di educazione: sono anni in cui Labriola mostra un particolare impegno verso il miglioramento del livello professionale degli insegnanti e la diffusione dell’istruzione di base della popolazione, inteso come primo passo per una maggiore democrazia del paese. A questo scopo s’informa sugli ordinamenti scolastici dei paesi europei: nel 1880 pubblica gli “Appunti sull’insegnamento secondario privato in altri Stati” e nel 1881 “l’Ordinamento della scuola popolare in diversi paesi”. Contemporaneamente Labriola abbandona le convinzioni politiche di moderato liberalismo per approdare a posizioni radicali: oltre alla lotta all’analfabetismo, auspica l’intervento dello Stato nell’economia, una politica sociale di assistenza ai poveri, il suffragio universale che permetta anche a candidati operai l’ingresso al Parlamento. Inizia anche l’abbandono dell’idealismo hegeliano da parte sua e un avvicinamento al materialismo. Nel 1887, ottenuta la cattedra di filosofia all’Università di Roma, inizia il suo corso di “storia del socialismo”, intanto prende anche radicali posizioni anticlericali e laiche: Labriola tiene all’Università la conferenza “Della Chiesa e dello Stato a proposito della conciliazione”, considerando una minaccia per la libertà di pensiero ogni accordo tra Clero e didattica scolastica, temendone l’ingerenza nella vita pubblica italiana; il 18 novembre 1887 il quotidiano romano “La Tribuna pubblica una sua lettera in cui, tra l’altro, scrive di essere «teoricamente socialista ed avversario esplicito delle dottrine cattoliche» e il 22 gennaio 1888, nella conferenza “Della scuola popolare”, auspica l’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole.

È proprio alla fine degli anni 80 del ‘800 che Antonio Labriola approda totalmente al marxismo: il 2 maggio 1890 scrive che «I parlamenti, come forma transitoria della vita democratica d’origine borghese, spariranno col trionfo del proletariato» e il 20 giugno tiene nel Circolo operaio romano di studi sociali il discorso “Del socialismo” commemorando, positivamente, la Comune di Parigi. Nel 1890 entra in rapporto epistolare col vecchio teorico comunista Friedrich Engels che incontrerà nel 1893 a Zurigo assieme ai massimi teorici socialisti del tempo quali Kautsky, Liebknecht, Bebel e Lafargue, mentre rimprovera a Filippo Turati, il più prestigioso leader socialista italiano e direttore della rivista Critica sociale, superficialità teorica e arrendevolezza nei confronti degli avversari politici. Dopo il suo fallimento di influire in modo positivo sulla formazione e costruzione del Partito Socialista Italiano, il suo esordio come teorico del marxismo, nel 1895, è il primo dei suoi saggi sulla concezione materialistica della storia ossia “In memoria del Manifesto dei comunisti” fu scritto soprattutto per sollecitazione di una rivista d’ispirazione marxista francese, il Devenir Social, fondato nello stesso anno da Sorel. Provò a mandarne una copia ad un giovane studioso napoletano, che anni prima era suo allievo all’Università di Roma, per avere un parere su una eventuale edizione italiana. Il giovane amico di Napoli, che era poi Benedetto Croce e che doveva più tardi diventare il suo più grande antagonista teorico, rimase “infiammato” -come scrisse egli stesso- dalla lettura e non solo si offrì di occuparsi dell’edizione italiana del saggio di Labriola ma incitò quest’ultimo a dare un seguito alla cosa e a svolgere più estesamente le idee che nel primo saggio aveva soltanto abbozzato. Nacque così il progetto, di Labriola, dei “Saggi intorno alla concezione materialistica della storia”. Fu anche incoraggiato, nell’esecuzione del nuovo progetto, dal successo fatto col primo. Arrivavano lodi da Engels, che già prima aveva considerato Labriola «un marxista rigoroso» (e che fece in tempo prima di morire a leggere la prima parte del secondo saggio sul Devenir Social). Nell’anno seguente alla pubblicazione dell’edizione italiana apparve un suo secondo saggio “Del materialismo storico” importantissimo per definire la sua filosofia. E a distanza di un anno, nel 1897, il terzo saggio “Discorrendo di socialismo e filosofia”. I suoi scritti arrivarono, a puntate, a Sa Pietroburgo sulla rivista “marxisti legali” dove ebbe l’apprezzamento da parte di Plechanov se non per poche critiche al livello metodologico di Labriola.

Senza riserve fu invece il giudizio positivo di Vladimir Lenin sul secondo saggio di Labriola, giuntogli in francese nel villaggio siberiano dove era allora deportato. Il libro penetra anche nelle prigioni zariste e ne fa testimonianza Trotsky, al tempo richiuso ad Odessa, che ricorda l’entusiasmo della lettura di quelle pagine in cui riconosceva il possesso della dialettica materialista.

Fu grande la delusione di Labriola quando nel 1898 i due che più di tutti sembravano essersi avvicinati al suo ordine di idee e delle quali erano divenuti propagandisti, Croce in Italia e Sorel in Francia, dimostrarono -dandosi anima e corpo alla cosiddetta crisi del marxismo– di essersi incamminati in una direzione esattamente opposta a quella da Labriola indicata. «La questione però andava molto al di là dell’imbarazzo personale in cui Labriola si era venuto a trovare per l’inattesa defezione dei suoi amici. La cosiddetta crisi del marxismo” che inizialmente gli era apparsa come un affare da dilettanti, in cui mischiavano sia le astratte esercitazioni accademiche che i probabili intrighi polizieschi, doveva rivelarsi qualcosa di più serio e di diverso quando vi intervenne Bernstein e si trasformò in una questione di partito». Scriveva Valentino Gerratana nella sua introduzione di “Del materialismo storico”.

Si rese conto che però non bastava, in quella situazione, difendere il marxismo dagli spalti della «ortodossia», e che, per essere veramente marxisti, bisognava dare una risposta giusta, adeguata, ai problemi reali posti dai nuovi sviluppi del capitalismo, quei problemi a cui il revisionismo bernsteniano aveva dato una risposta sbagliata politicamente quanto superficiale e inadeguata scientificamente. « Di fatti -aveva scritto nel suo terzo saggio- la maggior difficoltà di intendere e di continuare il materialismo storico non istà nell’intelligenza degli aspetti formali del marxismo, ma nel processo delle cose in cui quelle forme sono immanenti, delle cose, che Marx per conto suo seppe ed elaborò, e di quelle altre moltissime, che tocchi a noi di conoscere e di elaborare direttamente». Inviò al Mouvement socialiste una lettera aperta, di 15 pagine, in cui spiegava le sue posizioni riguardo Bernstein: rifiutando di fare da spettatore imparziale si schierava per un atteggiamento antirevisionista intransigente ma non ortodosso, e lodava quindi tra le risposte al libro di Bernstein “Le premesse al socialismo e i compiti della socialdemocrazia«gli articoli molto vivi e penetranti di Rosa Luxemburg», come «reazione diretta e immediata di un corpo vivente che si trasforma attraverso questa stessa reazione». In questa lode si può anche avvertire una tacita riserva: in quanto «reazione diretta e immediata» poteva giustificare in quegli articoli «l’affermazione ripetuta dei principi» che non era in questo caso «ostinazione dottrinale, ma è il corpo stesso, il quale, nutrito dei suoi principi che son diventati la sua carne e il suo sangue, difende in essi -nei principi- i suoi criteri di azione, i suoi principi direttivi, il suo modo di agire, in una parola il suo proprio essere».

Il contrasto tra Plechanov, che voleva difendere, insieme ai principi, ogni singola virgola della vecchia enciclopedia e dogmatizzarla, e Bernstein che pretendeva darne una revisione sistematica e moderata in poche centinaia di pagine, gli appariva ora come la contrapposizione sterile di due astratti dottrinarismi. Non si trattava quindi di scegliere tra ortodossia e revisionismo, ma di respingere l’alternativa stessa, rifiutare di dover scegliere un “meno peggio” che lui non riconosceva in nessuna delle due fazioni, per un atteggiamento veramente critico.

Schematicamente, possiamo suddividere il percorso filosofico e politico di Labriola in tre diversi momenti: innanzitutto fu propugnatore dell’idealismo hegeliano (influenzato da Bertrando Spaventa, allievo a Napoli); successivamente, possiamo distinguere una fase contrassegnata dal rifiuto dell’idealismo in nome del realismo herbartiano, ed infine, il momento della maturità, in cui aderisce pienamente al marxismo e al materialismo storico. L’approccio di Labriola al marxismo è influenzato da Hegel e Herbart, per cui è più aperto dell’approccio di marxisti come Karl Kautsky. Egli vide il marxismo non come una schematizzazione ideologica ed autonoma dalla storia, ma piuttosto come una filosofia autosufficiente per capire la struttura economica della società e le conseguenti relazioni umane. Era necessario aderire alla realtà sociale del proprio tempo storico se il marxismo voleva considerare la complessità dei processi sociali e la varietà di forze operanti nella storia. Il marxismo doveva essere inteso come una teoria ‘critica’, nel senso che esso non asserisce verità eterne ed immutabili ed è pronto ad interpretare le contraddizioni sociali secondo le diverse fasi storiche, avendo al centro della sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque la concreta e materiale “prassi” umana. La sua descrizione del marxismo come “filosofia della prassi” verrà ripresa infatti nei “Quaderni dal carcere” di Gramsci. A L. Trotsky, dopo 30 anni, continuava a rimanergli in mente «il ritornello “Le idee non cascano dal cielo” dell’italiano Labriola» come scrisse il rivoluzionario nelle sue memorie.

Antonio Labriola morì all’età di 61 anni nel 1904 il 12 febbraio.

-compagno Grimm

50 ANNI DALLA MORTE, ERNESTO GUEVARA DETTO IL Che.

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-“La rivoluzione non si porta sulle labbra per parlare di lei, si porta nel cuore per morire per lei.” Ernesto “Che” Guevara.

In una stanza, nella scuola del villaggio di La Higuera in Bolivia, l’8 ottobre 1967, dopo un giorno di prigionia e dopo che già il giorno precedente ne era stata dichiarata la non ancora avvenuta morte a causa di ferite da combattimento, veniva fucilato il comandante argentino il dr. Ernesto “Che” Guevara de la Serna. Un avvenimento storico che ebbe estrema rilevanza nel mondo di allora e che tutt’ora porta avanti i suoi effetti. Infatti 50 anni fa in quel dì d’ottobre moriva assassinato il più grande rivoluzionario del dopoguerra, uno dei più grandi rivoluzionari di sempre, anche se per coerenza a quelle che erano e sono le sue e le nostre idee non andrebbe chiamato così. “ I liberatori non esistono sono i popoli a liberarsi da soli” è infatti una delle sue celebri frasi, una delle tante che assieme alle sue gesta ne avevano fatto già da vivo un mito e che hanno provocato alla sua morte l’esplosione di un mondo intero che lo aveva ammirato, giudicato, amato e criticato. Con quei colpi di fucile il giovane volontario il sergente boliviano Mario Teràn consolidò alla storia Ernesto Guevara e il suo martirio. Ma chi era quest’uomo tanto famoso? quest’uomo di cui vediamo solo la leggenda che dalla sua morte imperversa nel mondo dell’arte e di tutte le gioventù del mondo?

Suo padre, Ernesto Guevara Lynch, proveniente da due diverse stirpe di cercatori d’oro ( i Lynch e i Guevara ) figlio di nobili argentini, perde il padre a soli 19 anni. Non sarà tanto saggio e previdente a usare l’eredità del suo vecchio, tant’è che aveva speso già quasi tutto quando conobbe Celia de la Serna, discendente di aristocratici irlandesi dal sangue blu e di piccoli borghesi peruviani, futura madre del Che. I due, già piuttosto malvisti dalla società piccolo borghese di cui facevano parte per le loro chiare e forti idee di sinistra e soprattutto democratiche, rischiavano anche di peggio quando Celia rimase incinta prima del matrimonio, cosa inaccettabile nell’Argentina degli anni 20. E dunque lei partorì in totale segretezza nella clinica di un medico amico e fidato che falsificò ogni documento, il piccolo Ernesto fu presentato al mondo solo un mese dopo dalla sua vera nascita avvenuta il 14 maggio 1928 a Rosario nel nord dell’Argentina. Ernestito, così era chiamato il piccolo Che, ebbe ben 2 fratelli e 2 sorelle e a casa Guevara si respirava un aria di democrazia e libertà, propugnata soprattutto dalla madre, dove ogni giorno accadeva qualcosa di nuovo o interessante, ogni giorno vi erano amichetti di Ernesto e dei suoi fratelli a giocare o studiare e ogni sera amici dei suoi genitori a parlare del più e del meno di politica e di notizie. Accolsero vari fuggitivi dalla Spagna franchista e durante il secondo conflitto mondiale tanti scappati dagli orrori della guerra che imperversava in Europa. Ernesto imparò giovanissimo, a 4-5 anni, a leggere e scrivere grazie alla madre e divenne subito un vorace lettore, contrasse in quel periodo anche l’asma che si portò dietro tutta la vita. Crescendo divenne prima un iperattivo e scalmanato ragazzino vestito da indiano, poi un alunno svogliato e casinista in classe, divenne forte nei vari sport e nelle materie umanistiche. Il suo essere tanto estroverso, diverso e creativo attirava l’attenzione su di lui attenzioni che li valsero soprannomi come “el chancho” ossia “il maiale” che portava calzini e scarpe diverse, vestiti sudici e si arrampicava sui più alti alberi del cortile per poi cadere in pozze di fango. Al liceo conobbe Alberto Granado, giovane studente di medicina come Ernesto ma di 6 anni più grande, con lui condividerà un esperienza intensa che cambierà per sempre e radicalmente le vita di Ernesto. Nel 1951, dopo anni che lo progettavano, una volta che Ernesto prese un anno di pausa dall’università, i due partivano sulla motocicletta di Alberto, una motocicletta Norton 500 del ‘39 denominata La Poderosa, per un viaggio nel continente Sudamericano lungo la costa pacifica tra città, natura e lebbrosari. In questo viaggio Ernesto vide la grandissima povertà delle città e delle campagne latino americane, lo sfruttamento di centinaia di migliaia di uomini e donne nei campi e nelle fabbriche tutte di proprietà statunitense. Vissero molte esperienze e Ernesto confermò la sua visione bolivarista e internazionalista di un Sud America unico e unito senza reali divisioni nella popolazione, in questo viaggio prese contatto con libri come Il Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx, Stato e Rivoluzione di Lenin e lesse varie cronache della rivoluzione russa e scritti sui movimenti operai europei, scritti di Antonio Gramsci e Sartre. Ernesto Guevara teneva sempre un diario e nel diario di quel viaggio che lui intitolò, e successivamente pubblicò, “notas de viaje” ossia note di viaggio, scrisse “non sono più lo stesso di prima”. Tornato a Buenos Aires si laurea in medicina ma riparte presto, questa volta per ragioni ben diverse. Il suo nuovo e meno famoso viaggio lo condusse col suo amico Calica e sua sorella Celia. In Honduras i suoi due compagni di viaggio tornarono in Argentina, lui prosegue per il Guatemala. È qui che finisce Ernesto Guevara e comincia El Che. A Cuba a seguito della rielezione di Fulgencio Batista quest’ultimo, quasi per festeggiamento, indisse un amnistia generale e tanti compagni di Fidel Castro che con lui avevano partecipato all’assalto alla Caserma Moncada furono scarcerati e esiliati, compresi i fratelli Castro. Tanti di questi esuli cubani andarono proprio in Guatemala dove al governo stava il filo-socialista, riformista e progressista Jacobo Arbenez Guzman che tanta paura e tanto schifo faceva all’impero statunitense. Ernesto presto conobbe questi esuli, uno dei quali un certo Antonio “Nico” Lopez gli affibbiò il soprannome “Che” a causa del fatto che Guevara come ogni argentino usava di continuo l’intercalare “che” corrispondente al nostro “hey”. Conobbe anche la peruviana Hilda Gadea con cui Ernesto ebbe da subito un forte e intimo rapporto, lei faceva parte di un partito operaio, di centro sinistra, peruviano e introdusse Ernesto al maoismo del quale lui rimase in quel periodo fortemente innamorato. Il 15 maggio 1954 arrivò, in Guatemala, per nave, un carico d’armi di marca Skoda, inviato dalla Cecoslovacchia socialista a sostegno del governo Arbenz. Il carico, venne usato come pretesto dagli USA per l’inizio dell’attacco: un piccolo esercito, armato e finanziato dalla CIA (appoggiata dalla United Fruits Company) e comandato da Castillo Armas, entrò in Guatemala il 18 giugno, mentre nei giorni precedenti si era formato un clima di propaganda anti-comunista e di disinformazione, era l’operazione “Success”, la popolazione civile era stata bombardata dagli americani nei giorni precedenti. A partire dal 25 giugno i comandi militari di Arbenz si rifiutarono di obbedire e lo obbligarono a dimettersi. In pochi giorni i golpisti presero il potere. Guevara prestò il suo aiuto arruolandosi come medico e reporter in una brigata comunista, e dopo la sconfitta si impegnò nell’organizzare una sorta di resistenza insieme a altri giovani di sinistra, mentre Gadea venne arrestata per pochi giorni. Il colpo di stato contro Arbenz, consolidò l’opinione di Guevara che gli Stati Uniti fossero una potenza imperialista, che si sarebbe sempre opposta ai governi intenzionati a ridurre le disparità economiche, endemiche in America Latina e negli altri paesi in via di sviluppo. Questo rafforzò ulteriormente la sua convinzione secondo cui solo il socialismo, raggiunto attraverso una coscienza di classe e una la lotta armata e difeso dal popolo in armi, avrebbe risolto i problemi dei paesi poveri. Dopo qualche settimana rifugiato nell’ambasciata argentina, il Che, raggiunse il Messico assieme a tanti esuli cubani conosciuti in Guatemala, fu subito raggiunto da Hilda con cui andò a nozze e da cui ebbe una figlia femmina: Hildita. Pochi giorni dopo gli fu presentato Raùl Castro che la sera stessa gli presentò Fidel. Il Che e Fidel rimasero a discutere per una notte intera al termine della quale il Che scriverà sul suo diario che Fidel castro è l’uomo giusto, è il leader rivoluzionario che stava aspettando. Sulla nave Granma, che il 26 novembre del 1956 salpò dalla zona di Veracruz in Messico con destinazione Cuba, v’erano 82 uomini tra i quali i fratelli Castro, il Che, Camilo Cienfuegos, Juan Almeida e l’italiano, ex partigiano socialista, Gino Donè Paro. Due giorni dopo lo sbarco sembravano già perduti, erano stati attaccati dall’esercito che li decimò tanto che rimasero in 12 vivi, divennero 17 con l’aggregamento di alcuni contadini locali e questi 17 uomini, comandati da Fidel Castro, diedero inizio alla rivoluzione cubana sulla Sierra Maestra. Le vicende di quest’impresa sono fin troppe per scriverle tutte in questo riassunto biografico, un impresa di battagli, glorie e perdite, tradimenti come quello del contadino venduto all’esercito statale Eutimio Guerra che fu giustiziato dal Che in persona, la prima persona che uccise e di cui si ricorderà tutta la vita. Il Che condusse una delle più decisive vittorie per la rivoluzione: quella di Santa Clara de Cuba che fu presa dai rivoluzionari grazie alla strategia di Guevara e alla enorme partecipazione popolare della città nell’assisterli e aiutarli. È infatti una caratteristica della rivoluzione cubana, che insieme a altre caratteristiche la renderà subito popolare e acclamata dai più, la grande partecipazione popolare. Sta di fatto che non c’era un avanguardia esterna alle masse come fu il “gran partito” in Russia nel ‘17 o in Cina con Mao, a Cuba la rivoluzione era divisa su due fronti: i sempre più numerosi guerriglieri sulla Sierra, tutti contadini di quelle terre, e poi nelle città chi non andava col fucile sui monti si batteva contro la dittatura militare filo-statunitense e repressiva di Batista. Questa elevata partecipazione è dovuta alla forte propaganda studiata e messa in atto da Fidel che dal carcere riuscì a far innamorare ogni cubano che non possedesse una villa o un bordello. Dopo la vittoria della rivoluzione il Che ebbe varie cariche all’interno dell’amministrazione cubana tra cui ministro dell’industria e, nonostante il suo dichiarato odio per il denaro, fu presidente della banca nazionale cubana. Ebbe un secondo matrimonio con Aleida March, una staffetta della rivoluzione di cui era innamoratissimo, ebbe 4 figli con lei. In questo periodo Che Guevara si distacca dal maoismo e dall’ortodossia marxista-leninista in cui, prima Hilda e poi Raùl Castro (il più filo-sovietico tra i comandanti), lo avevano trascinato. Comincia a criticare duramente il modello sovietico, le sue burocrazie, il suo duro centralismo statale che lo porta a una società piramidale. A causa dell’alleanza della neonata Cuba post-rivoluzionaria con l’Urss di Krusciov il Che, per le sue critiche, fu più volte additato come filo-cinese e sognatore e era protetto solo dal grosso braccio di Fidel Castro che lo difese più e più volte. Quando Ernesto sparì da Cuba sua madre, ironicamente, temeva che lo avessero nascosto in qualche campo di lavoro forzato (fino al ‘71 nella Cuba castrista esistevano gli UMAP ovvero luoghi dove risiedevano detenuti di un certo tipo tenuti a fare tot ore di lavori forzati per la società, rimasero famosi perché più volte negli anni 60 vi finirono omosessuali ritenuti pericolosi dal regime, Castro stesso riconobbe l’errore anni dopo ). Scherzando lei diceva così perché sapeva che suo figlio si sentiva solo, avvolte si ritrovava in Fidel ma altre nemmeno in lui, lui aveva colpito i cubani per un particolare che da loro li diversificava: lui era un argentino, uno straniero, che però era stato più che disposto a morire e uccidere per la oro patria. Questo colpii moltissimo i cubani già durante la rivoluzione, e sua madre lo descrisse come un internazionalista puro in una rivoluzione nazionalista tinta di socialismo. Sappiamo in realtà quanto fu internazionalista la rivoluzione cubana, ma comunque forse anche per questa solitudine e sicuramente se non esclusivamente per il suo internazionalismo e il suo amore per l’umanità il Che prese una drastica decisione. Non si sarebbe fermato lì, non sarebbe rimasto un ministro o un burocrate cubano, il suo sogno non si fermava a Cuba. Durante il viaggio con Alberto Granado aveva visto la sofferenza della gente sfruttata uguale in ogni luogo, e a Valparaiso, davanti a una vecchietta, contadina, malata e morente Ernesto Guevara si domandava, a quel punto, che cosa potesse pensare quella persona poverissima della propria sofferenza, e credette di capire che si sentiva di peso per la sua famiglia, alla quale non poteva più dare niente. Questo aveva visto Ernesto, la sofferenza umana, e aveva preso decisione che combatterne le cause sarebbe stata la sua vita come medico e come rivoluzionario. Durante la crisi dell’ottobre 1962, Guevara percepì come un tradimento sovietico la decisione – presa da Nikita Chruščёv senza consultare Castro – di ritirare i missili da Cuba. Divenne quindi più scettico nei confronti dell’Unione Sovietica. Come emerso dal suo ultimo discorso ad Algeri, del 24 febbraio 1965, aveva incominciato a vedere l’emisfero settentrionale, guidato a ovest dagli Stati Uniti e a est dall’Unione Sovietica, come unica entità sfruttatrice dell’emisfero meridionale. Di fronte alle più diverse ipotesi sul destino del rivoluzionario argentino, Castro, il 16 giugno 1965, disse che l’opinione pubblica sarebbe stata informata su Guevara quando lo stesso Guevara avesse ritenuto opportuno farlo. Intanto le voci si diffondevano sia a Cuba sia all’estero. Il 3 ottobre di quello stesso anno, Castro rese pubblica una lettera priva di data, presumibilmente scrittagli da Guevara diversi mesi prima, in cui questi riaffermava la sua solidarietà con Cuba, ma dichiarava anche la sua intenzione di abbandonare l’isola e di andare a combattere altrove per la Rivoluzione. Nella lettera Guevara spiegava che: “Altri Paesi nel mondo hanno bisogno dei miei modesti sforzi” e annunciava di dimettersi da tutte le cariche che occupava, nel governo, nel partito e nelle forze armate. Rinunciò anche alla cittadinanza di Cuba, che gli era stata concessa nel 1959 per i suoi meriti nella rivoluzione. Durante un’intervista con quattro giornalisti stranieri il 1º novembre, Castro disse di essere al corrente di dove fosse Guevara e aggiunse, riguardo alle voci su una possibile morte del vecchio compagno d’armi, che questi, al contrario, godeva di ottima salute. Dove fosse Guevara restò, comunque, un mistero per i successivi due anni, durante i quali i suoi movimenti rimasero segreti. Andò nel ex Congo belga, lì avrebbe voluto riportare l’esperienza della rivoluzione armata cubana. Fallì sopratutto perché il principale gruppo rivoluzionario locale non volle mai allearsi con Guevara e la disorganizzazione degli uomini era elevata. Due emissari di Fidel Castro convinsero il Che a ritirarsi, in realtà, lui, decise di abbandonare solo quando capì che sarebbe stato per l’inizio di un altra rivoluzione popolare stavolta in America Latina. Con l’aiuto di Fidel, a Cuba, progettarono la missione in Bolivia, Che Guevara dovette camuffarsi rendendosi calvo e subendo alcuni interventi plastici per rendere il volto più da “sempliciotto” come disse in futuro la sua guardia del corpo. Per testare tale travestimento andò dai suoi figli che non lo riconobbero, fu l’ultima volta che li vide. Mancò in Bolivia l’appoggio della popolazione locale, in più persero i contatti con Cuba e il Partito Comunista Boliviano che avrebbe dovuto dargli pieno sostegno si era venduto all’Unione Sovietica che era fortemente contraria alle missioni internazionaliste di Che Guevara, supportate da Castro che continuerà a farne. Più e più volte la popolazione locale li tradì e loro ridotti in miseria erano costretti a fermarsi a ogni casa avendo sempre uomini feriti e quasi ogni volta queste case segnalavano poi la loro posizione all’esercito boliviano a cui si erano presto aggiunti i ranger della CIA addestrati a combattere nelle giungla. Fu l’ennesimo tradimento a culminare con la cattura di Ernesto “Che” Guevara, l’8 settembre, nel primo pomeriggio, durante un imboscata dell’esercito nella zona di Vallegrande il comandante Che Guevara fu colpito da una raffica di colpi alla gamba destra, il suo compagno che tentò di salvarlo fu subito colpito a morte. Ernesto si fece identificare e fu catturato, disse “non avrebbero mai dovuto prendermi vivo”. Intanto la Bolivia aveva già annunciato al mondo la morte del comandante argentino per ferite di battaglia. Fu tenuto prigioniero nella scuola del paesino di La Higuera mentre la CIA cercava di convincere i boliviani di portarlo negli Stati Uniti e metterlo a processo, ma niente da fare. Nel primo pomeriggio del 9 ottobre il volontario Mario Teràn entrò nella stanza del Che armato, lui rabbrividì, poi disse “dite a mia moglie di risposarsi e di essere felice, dite ai miei figli di avere una vita normale” “addio Aleida amore, Fidel fratello mio”. E poi, guardando il suo assassino “stia tranquillo lei sta per uccidere un uomo”. Al cadavere furono fatte varie foto come testimonianza e gli furono amputate le mani e spedite a Cuba, sempre come prova. Il corpo di Ernesto e di alcuni suoi compagni furono rinvenuti nel 1997 nei pressi di una pista di partenza dell’areoporto di Vallegrande, i suoi resti ora riposano nel mausoleo di Che Guevara a Santa Clara de Cuba a Cuba.

Da allora la sua immagine, come martire, è usata e conosciuta ovunque, tanto che ancora oggi si vede rinascere tra i giovani il bisogno di riconoscersi in lui, in quelle che pensano siano state le sue idee. Qualunque iniziativa porti l’emblema del suo “look” guerrigliero è destinata al successo, alcuni ne approfittano per vendere qualsiasi cosa con la sua immagine. Il Che è solo un moderno Don Chisciotte, il guerrigliero errante immortalato nella famosa foto di Alberto Korda che lo ritrae con sguardo truce e basco nero? La persona di Ernesto Guevara, a rivederla, è in realtà più complessa. Non solo uomo di azione ma anche intellettuale, nei suoi ultimi undici anni di vita, autore di numerosi libri sulla storia della rivoluzione cubana, di alcuni testi teorici e di appunti e riflessioni sulle incongruenze del modello sovietico. Troppo spesso non se ne evidenzia a sufficienza neppure l’esperienza da ministro dell’Industria e presidente della Banca nazionale di Cuba. All’inizio della sua avventura rivoluzionaria il Che è un marxista trasformato poi in marxista-leninista ortodosso che guarda con favore alle esperienze del socialismo reale; matura poi, progressivamente, un distacco da quei modelli, sia perché li conosce da vicino visitando i paesi dell’Est sia perché ne intravede le contraddizioni quando vengono importati a Cuba. Abbiamo il dovere di ricordare questo misterioso, glorioso e romantico personaggio perché non venga sostituito dai prodotti che lo ritraggono.

Oggi nel primo pomeriggio 50 anni fa dopo aver già dato la notizia che Ernesto Guevara era morto per ferite in battaglia, dopo un giorno di prigionia nel villaggio di la Higuera i ranger boliviani, dopo aver ignorato la richiesta della CIA di portarlo in America e processarlo, giustiziarono il Che l’unica persona che pur di perseguire il suo ideale e vedere gli altri stare bene quanto lui aveva messo in secondo piano genitori, amore, figli, amicizie, lussi vari per perseguire il suo sogno. Hasta siempre comandante!

-compagno Grimm

INDIVIDUALISMO NEL CAPITALISMO-CRITICA ALLA SUA FILOSOFIA.

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Non è che mi manchi la forza, o che mi manchi il coraggio, è che ormai son dentro a quest’ingranaggio”. [Giorgio Gaber]

In un sistema in cui persiste, ed è elevato, il divario tra le classi sociali e la loro stessa esistenza, un sistema la cui filosofia economica crea una società inevitabilmente piramidale, quale il sistema capitalista, ciò che accade a livello sovrastrutturale (accadimenti direttamente dipendenti dal livello strutturale e, per così dire, dalle punte della piramide sociale, non in quanto individui che le occupano ma in quanto posizioni e ruoli, con dei loro meccanismi propri per salire e scendere), a livello sovrastrutturale, ciò che accade è un processo che, date le già elencate circostanze, influisce sulla psicologia degli individui (che, ovviamente, influiranno, già “mutati” dalle precedenti circostanze, sulle circostanze stesse che dunque cambieranno e cambieranno la loro influenza sugli individui e viceversa) secondo quindi il principio che “le circostanze fanno l’uomo non meno di quanto l’uomo faccia le circostanze”. A questo punto, tenendo come fatto certo ciò che è scritto sopra, dobbiamo letteralmente identificare quella psicologia di massa (soggetto) sottoposta a tale procedimento.
Nel sistema capitalista, e partiamo considerando un capitalismo estremo, possiamo innanzitutto concentrarci sul fatto che, come tutto, anche l’ente scuola è privatizzato. Privatizzato dunque da chi se non da chi se lo può permettere? L’istruzione non sarebbe quindi libera per il semplice fatto che chi ha potuto permettersi di privatizzare un ente scuola ha ora ottenuto un ruolo di relativo potere, e non ha nessun interesse a perderlo, perché? Perché nel sistema capitalista per avere un ricavato in denaro si deve sempre cercare di salire di gradino in gradino nella piramide sociale, correndo sempre il rischio di non riuscirci se arriva qualcuno relativamente migliore di te in dato campo o con più esperienza, qualcuno che in ogni caso può essere visto come più conveniente dal padrone borghese di turno. E allora, chi riesce nel avere un relativo potere nella società non è di certo disposto a scendere di un singolo gradino, è invece intenzionato a salire.
Per questo l’istruzione non sarebbe libera, proprio perché nel capitalismo chi ottiene potere cerca di mantenerlo, chi privatizzerà la scuola e dunque l’istruzione non avrà interessi di istruire e acculturare veramente le persone che avranno quindi un’istruzione che giovi a chi ci guadagna, cioè a chi l’ha privatizzata, e quindi manomessa per far vedere la realtà alla popolazione come il capitalista in questione vuole che la vedano e anche in modo che non ci siano possibilità che a qualcuno venga in mente qualcosa che non giovi al potere, al capitalista. Un’istruzione che quindi agisce su due fronti connessi, da un lato crea ignoranza e dall’altro indottrina chi vi è sottoposto. Abbiamo quindi una popolazione passata per questo tipo di istruzione, una popolazione ignorante che poi si ritroverà a lavorare per altri padroni che ben sfrutteranno quest’ignoranza. Queste persone relativamente ignoranti vedranno inevitabilmente nel lusso e nei poteri dei loro padroni il successo, vedranno nel denaro il mezzo per le proprie soddisfazioni secondo falsa formula che più denaro si ha e meglio si vivrà. Nel sistema capitalista o si compete per divenire schiavisti o si resta schiavi, è qui che nel capitalismo subentra con la massima facilità e comodità l’individualismo. Per mantenere il proprio salario, per cercare di averne di più, per cercare di diventare il padrone -nel capitalismo- non si scampa alla forma più feroce del darwinismo sociale (parte inscindibile del capitalismo) in cui, proprio come il celebre scienziato inglese teorizzò per il mondo naturale e le sue evoluzioni, vi è una selezione in cui il meglio adattato sopravvive mentre l’obsoleto, il meno furbo, il leale o chiunque sia “meno adattato” perisce. Chi meglio si adatta può scalare i gradini della piramide sociale alla ricerca di quella mitologica libertà che si troverebbe in cima, mentre chi viene sconfitto cade di gradino in gradino, così nasce la disoccupazione: persone considerate non abbastanza “adattate” per determinati ruoli lavorativi (consiglio di leggere l’articolo del compagno F sullo spreco di forza lavoro, in cui spiega come i disoccupati siano un altro spreco di forza lavoro prodotto dal sistema capitalista). In questo darwinismo sociale in cui il più adattato va avanti la psiche delle persone cambia, cambia in base a queste circostanze, e anch’essa, proprio per non perire e sopravvivere, si adatta: muoiono solidarietà, pietà e lealtà e vigono l’egoismo e l’individualismo come armi per non farsi sopraffare e sconfiggere da qualcuno relativamente migliore e per sconfiggerne altri, per puntare alle cima della piramide. Come nell’esempio di prima in cui il capitalista che privatizzava la scuola faceva tutto ciò che poteva fare per mantenere il proprio potere senza che gli infilassero bastoni tra le ruote, per poter continuare a guadagnare e giovare dal suo ruolo, qualsiasi altro individuo farà e si impegnerà per mantenere il proprio guadagno da un dato ruolo sociale e questo lo farà sempre a discapito di qualcun altro, qualcun altro con lo stesso intento ma sopraffatto da chi è meglio adattato, esattamente come nella selezione naturale darwiniana tramite la quale si evolvono le specie e vanno avanti le meglio evolute, le meglio adattate. Questo è l’individualismo all’interno del sistema capitalista, di cui lo stesso capitalismo non può fare a meno: utilizzare ogni mezzo per sopravvivere nonostante questo comporti la morte di tutti gli altri.
E questo sistema disumano non si perde nel capitalismo moderato e liberale che, semplicemente, anziché lasciar morire di fame per strada gli sconfitti e i perdenti di questo processo gli danno quel poco che gli basta perché sopravvivano così da apparire più umani, moderati e tolleranti quand’è in realtà solo ipocrisia. Diciamo che comunque nel sistema liberale questi aiuti ai poveri e ai disoccupati vengono dati solo in teoria, vi basta fare un giro per qualche grande città italiana e scoprire che le persone che troverete per terra con scritto “ho fame” su un pezzo di cartone, o che con un bicchiere di plastica girano tra le macchine al semaforo rosso purtroppo non entrano sulle 10 dita delle mani.
Cosa accade invece in un capitalismo di stato? Succede che chi al potere, ai ruoli statali, ci è arrivato indottrinando la popolazione e pur di non perdere il suo potere, esattamente come un capitalista, fa nascere ortodossia nelle sovrastrutture e autoritarismo nelle strutture, direttamente collegati dato che l’autoritarismo serve al potere per eliminare chi non si allinea all’ortodossia – come diceva George Orwell “l’ortodossia consiste nel non pensare, nel non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è inconsapevolezza.”- e l’ortodossia, generata dall’ignoranza, serve solo a proteggere lo Stato ovvero chi detiene il potere, da cosa? Dal pensiero rivoluzionario che sovvertirebbe il potere, e i pochi che scampano all’ortodossia passano per l’autoritarismo statale che li elimina per autoproteggersi, per continuare a giovare dal loro potere. Quindi qui a esercitare l’individualismo è proprio lo Stato, il potere. Inevitabilmente delle persone che, sottoposte al sistema capitalista, assumono un tale atteggiamento egoistico e individualista proprio a causa di questo atteggiamento elaborano una fortissima indifferenza verso ogni realtà disumana creata dal capitalismo, un’indifferenza che li rende capaci ora di proseguire il loro combattimento per la Terra Promessa, per il massimo potere, per la punta della piramide sociale.

~Compagno Grimm

SPRECO DI FORZA LAVORO NEL CAPITALISMO.

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Quando si parla di sprechi nel sistema capitalista si pensa soprattutto allo spreco di risorse naturali dovuto all’uso incontrollato di esse (un argomento su cui il Compagno Grimm ha splendidamente parlato nel suo articolo “L’importanza dell’impronta ecologica”), ad’esempio si può pensare allo spreco del petrolio, sostanza usata senza misura per decenni che non solo ha portato al problema dell’imperialismo, disperato tentativo della classe borghese occidentale di procurarsi l’oro nero, ma anche al problema del riscaldamento globale e dell’inquinamento che adesso sta mietendo milioni di vite. Ma, mentre questo tipo di sprechi possono essere almeno parzialmente arginati da leggi e sanzioni, c’è un tipo di spreco che è inevitabile nella società capitalista e non può essere arginato da alcuna sanzione o legge: lo spreco di forza lavoro.
Prima però è meglio definire cos’è la forza lavoro: “forza lavoro” è un’espressione coniata da Marx per indicare le capacità fisiche e mentali utilizzate dai lavoratori all’interno del processo produttivo, distinte dal lavoro effettivamente prestato. In base alla teoria marxista, ciò che l’operaio vende non è direttamente il suo lavoro, ma la sua forza lavoro, che mette temporaneamente a disposizione del capitalista. Il valore della forza lavoro è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per la sua conservazione o riproduzione, ma il suo utilizzo trova un limite soltanto nelle energie vitali e nella forza fisica del lavoratore. Per rinnovare giornalmente la sua forza lavoro egli deve produrre un valore giornaliero di un determinato ammontare, che ottiene lavorando per un  dato numero di ore (detto lavoro necessario). Le ore lavorate oltre quelle necessarie per produrre l’equivalente del suo salario, cioè del valore della sua forza lavoro, corrispondono al pluslavoro. Il rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario è detto saggio del plusvalore, indicato da Marx come misura dello sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale.
Tutti gli individui posseggono forza lavoro, ma nel sistema capitalista questa forza lavoro viene usata male e quindi sprecata da una larga fascia della popolazione ad incominciare da chi, nella società capitalista, domina: la classe borghese.
Chi dice che i borghesi non lavorino cade in errore perché è come dire che per dirigere un’impresa non ci sia bisogno di fare nulla, ma questo non è vero perché moltissime aziende falliscono ogni anno schiacciate dalla concorrenza. È più corretto dire che il lavoro compiuto dal capitalista non è un lavoro socialmente utile, cioè che il lavoro che un capitalista compie è solo per arricchire sé stesso e non la società: quando un proletario lavora, ovvero quando fa uso della sua forza lavoro, crea prodotti e questi prodotti vanno ad aumentare la ricchezza sociale perché sono oggetti che possono essere usati dal popolo intero per migliorare la qualità della propria vita, invece un capitalista lavora solo per far aumentare il suo profitto, ovvero per strappare più plusvalore possibile dai suoi operai e non per aumentare la ricchezza sociale; infatti l’unica ricchezza che il lavoro del borghese fa aumentare è la ricchezza del borghese stesso.
Qualche sostenitore del capitalismo potrebbe ribattere che i borghesi sono inventori e innovatori che, tramite l’ideazione di nuove tecnologie, aumentano la ricchezza sociale e quindi la loro forza lavoro non è sprecata. Tralasciando che la maggior parte degli scienziati che realmente inventano queste innovazioni tecnologiche sono in realtà dei salariati dei borghesi (e quindi subordinati a loro come i comuni operai) il cui scopo è quello di inventare macchine che facciano aumentare la ricchezza del borghese di cui sono al servizio, ricordiamo che la ricchezza può essere creata solamente dal lavoro, le sole idee non bastano perché non si può produrre qualcosa solamente pensandola, serve l’impegno degli operai che realmente creano nuova ricchezza sociale tramite l’impiego della loro forza fisica.
Gli inventori non creano nuova ricchezza sociale, creano istruzioni per creare nuova ricchezza sociale, per questo il loro ruolo non dovrebbe essere di comando sulla classe operaia (come quei pochi “capitalisti inventori” fanno), ma deve essere di collaborazione e di mutuo aiuto perché solo così si può organizzare la produzione in modo che vengano inventate e prodotte cose utili per tutti al minor costo possibile.
Purtroppo questa collaborazione operaio – inventore non può esistere nel sistema capitalista perché il “capitalista inventore” deve stare più attento ai propri affari e alla concorrenza che ai propri progetti perché, se non lo facesse, rischierebbe di smettere di essere competitivo sul mercato e quindi di finire in povertà nonostante le sue capacità mentali; infatti nella società capitalistica i “capitalisti inventori” devono interrompere la creazione di nuove tecnologie per guardare i propri affari e stare attenti che questi non vadano male, in poche parole devono stare attenti che il loro guadagno non cali e per fare ciò sono obbligati a rinunciare ad innovare la società a tempo pieno.
Quindi questa collaborazione tra inventore e operaio non gioverebbe solo al proletario, ma anche al “capitalista inventore”: libero dalle catene del mercato potrebbe dedicare tutto il suo tempo a inventare nuove cose e perfezionare quelle già inventate stando sicuro di una stabilità economica che nel capitalismo non gli è data.
Ritornando all’argomento di questo articolo parliamo di uno spreco di forza lavoro ancora più grande: quello commesso dall’intera industria della pubblicità.
L’industria pubblicitaria è quel settore dell’industria che si occupa di fare pubblicità alle altre imprese capitaliste.
Ma chi lavora nell’industria della pubblicità non produce alcuna ricchezza sociale perché il suo lavoro è finalizzato solo al far comprare alle masse i prodotti delle varie società capitaliste; questa industria non ha lo scopo di creare prodotti per le masse con cui esse possono migliorare la qualità della propria vita, questa industria non produce né beni né servizi per la popolazione, fornisce solo nuovo guadagno ai capitalisti e tutte le persone che ci lavorano, dal più insignificante grafico al più grande capo che comanda la più grande agenzia pubblicitaria, stanno sprecando la loro forza lavoro.
Eppure, nonostante l’industria pubblicitaria sia palesemente uno spreco, è una di quelle industrie sempre in crescita e che non ha mai conosciuto carenza di acquirenti: tutte le compagnie che se lo possono permettere spendono addirittura milioni nell’industria pubblicitaria, specialmente durante una crisi, quando la pubblicità è l’unica cosa che può tenerle competitive sul mercato.
Ma l’industria della pubblicità non è solo un problema perché è un enorme spreco di forza lavoro, diventa anche un problema perché i capitalisti non devono più proporre sul mercato prodotti migliori per fare un profitto più alto, ma devono usare la pubblicità migliore. Più la pubblicità è efficace, più la pubblicità è onnipresente, più il prodotto pubblicizzato sarà “alla moda”, più sarà “di tendenza”, più sarà “swag” e quindi per il consumatore sarà giustificabile un aumento del prezzo per un oggetto della stessa qualità.
L’esempio più lampante è l’industria della moda: tutti i grandi produttori di vestiti si concentrano più sul mettere il proprio logo ben visibile sui loro prodotti piuttosto che crearne di nuovi migliori di quelli delle altre marche e li fanno pagare dieci volte il prezzo di vestiti dello stesso materiale, colore e taglio delle marche minori, delle marche “per poveri”.
Allo stesso modo funzionano tutte le altre industrie, qualsiasi cosa producano: è la pubblicità, non la qualità che fa vendere.
Gli economisti borghesi, in una visione troppo idealizzata del capitalismo, scrivono che nel libero mercato i capitalisti, per accumulare più profitto, devono competere con gli altri capitalisti per offrire prodotti e servizi di qualità maggiore a minor prezzo, ma questi intellettuali hanno sottostimato la potenza della pubblicità, infatti, sfruttando al massimo le capacità dei pubblicitari, si riescono a vendere prodotti di qualità mediocre a prezzo altissimo essendo sicuri che essi verranno comprati da milioni di persone per non sentirsi esclusi dalla società; perché è questo che la pubblicità fa: crea bisogni.
Ironicamente l’unico settore dell’industria che funziona ancora secondo la “regola d’oro” degli economisti borghesi è proprio quello che si occupa della pubblicità, infatti solamente l’agenzia pubblicitaria che riesce a fornire pubblicità più efficiente riesce ad avere incarichi dai capitalisti più ricchi.
Riassumendo: non solo l’industria pubblicitaria è un’enorme spreco di forza lavoro perché chiunque ci lavora non aumenta la ricchezza sociale, ma confonde e aliena il consumatore che si trova a comprare un prodotto costoso non per le sue qualità, ma per la sua marca.
Un altro enorme spreco di forza lavoro è rappresentato dai disoccupati, persone che potrebbero lavorare ma non lo fanno perché non trovano un lavoro. I disoccupati non aumentano la ricchezza sociale perché non impiegano la loro forza lavoro e quindi la stanno sprecando. A febbraio 2017 la disoccupazione in Italia arrivava a 11,5%, un numero che le ha permesso di avere il quinto posto tra i paesi dell’UE con la disoccupazione più alta. Ma perché esistono i disoccupati? Perché non si può raggiungere la piena occupazione in un sistema capitalista?
Le risposte a queste domande sono da cercare all’interno del capitalismo stesso: come già detto prima un capitalista non vuole il bene della società, ma il bene di sé stesso, quindi non è il suo ruolo quello di assicurare ad ogni individuo abile un lavoro. Il suo ruolo è quello di assumere quanti individui egli pensi gli servano per massimizzare al massimo il suo profitto.
Ma se i capitalisti assumessero tutti gli uomini abili al lavoro non aumenterebbe la produzione e di conseguenza il profitto?
Il capitalismo è un sistema economico dove chi lavora, la classe operaia, è pagato meno del valore dell’oggetto che produce, quindi rare volte e solo nei paesi industrializzati occidentali un operaio può permettersi di comprare ciò che produce; per esempio in Vietnam un operaio che lavora per la Nike guadagna in media 170€ mensili. Questa cifra è a malapena sufficiente per comprare un paio delle scarpe della famosa marca, ma la situazione è ancora peggiore! I giornalisti di Basta!, Germain Lefebure e Ivan du Roy, sostengono che il guadagno dell’operaio vietnamita di Nike è di molto inferiore al salario vitale o di sussistenza, che permette di soddisfare bisogni fondamentali come alloggio, energia, acqua potabile, alimentazione, vestiario, salute e istruzione!
Quindi se tutti gli individui abili venissero assunti si incamperebbe molto presto in una crisi di sovrapproduzione. Tutto questo ci dimostra anche che il capitalismo non potrà mai garantire il benestare di tutta la società. Qualcuno deve soffrire perché il capitalismo possa funzionare.
Ma i disoccupati non potrebbero studiare ed ambire a lavori migliori e meglio pagati?
Questa sembra una critica logica per negare qualsiasi aiuto economico ai disoccupati, ma chi la formula non considera mai i cicli di povertà, situazioni permanenti in cui le famiglie della classe lavoratrice sono bloccate e che impediscono a quest’ultime di accumulare abbastanza beni per uscire dal ciclo legalmente (il crimine infatti è il modo più veloce per uscire dal ciclo, non a caso le zone più malfamate di una città sono sempre le zone più povere).
Se una persona è bloccata in un ciclo di povertà non può permettersi di studiare per lavori più prestigiosi perché le università e corsi vari sono una spesa enorme, ma è costretto a fare “lavori umili”, come il muratore, il netturbino e così via, lavori insomma che non gli permettono di guadagnare abbastanza per scalare la piramide sociale: una persona con uno stipendio mensile di 1500 € netti, non spendendo nulla, tramite il semplice risparmio ci metterebbe comunque più di 55 anni per avere un milione di Euro!
Se ne deduce che le divisioni tra le classi che si vengono a creare nel sistema capitalista non sono così facilmente sormontabili come i servi dei borghesi vogliono farci credere.
Ma la borghesia riesce a trovare utilità anche nei disoccupati siccome fa svolgere loro, involontariamente, una funzione di controllo sugli operai: i media borghesi dipingono sempre i disoccupati come pigri e incapaci, fallimenti umani frutto di “scelte sbagliate” (aaah, il capitalismo, un sistema così libero che puoi dare via la tua libertà per il successo!). Insomma, i disoccupati sono i paria, gli intoccabili, della società capitalista. Nessuno dovrebbe diventare come loro, tutti dovrebbero seguire ciecamente il proprio capo ed essere pronti a sacrificarsi per il “bene comune” (come la politica dell’austerity ci insegna) per non fallire e diventare come i disoccupati, scarti che non si meritano alcun aiuto.
Questo è quanto dicono i media borghesi; un ritratto totalmente sbagliato del disoccupato che ci viene presentato non come frutto delle contraddizioni interne del sistema, ma come risultato di “scelte di vita sbagliate”.
In poche parole i disoccupati vengono usati dalla borghesia come spauracchio per convincere gli operai ad obbedire sempre e a non unirsi alle fasce più povere della popolazione.
Come abbiamo visto il capitalismo è un sistema che non permette, ma obbliga a sprecare non solo risorse naturali, ma anche la cosa da cui il valore degli altri oggetti deriva, la forza lavoro. È un sistema inefficiente che non permette di sviluppare appieno le potenzialità del genere umano e la sua abolizione non può che essere una cosa positiva.

~Compagno F

L’IPOCRISIA CLERICALE.

 

artzL’IPOCRISIA CLERICALE
Nell’antichità, agli albori del cristianesimo, la parola “ecclesia” voleva dire “assemblea”, infatti i cardinali delle varie zone si riunivano, per un motivo o per un altro, compreso quello di Roma che non era ancora “il Papa” ma un cardinale come tutti gli altri. I preti potevano essere sia uomini che donne, e nella società tardo antica (nel periodo in cui finisce il Princeps e comincia il Dominatio per gli imperatori romani, quindi soprattutto da Diocleziano in poi) il loro compito era l’attivismo. Teoricamente, seguendo l’esempio di Gesù di Nazareth, i cristiani dovevano compiere azioni in vita per essere poi giudicati in base a queste dopo la morte, quindi i preti dovevano essere attivisti della religione cristiana tra gli humiliores del popolo, la povera gente. La Chiesa però in breve tempo crebbe fino a diventare un organo di potere. Con l’editto di Tessalonica il cristianesimo venne imposto come l’unica religione praticabile nell’Impero Romano. La Chiesa acquisì sempre più potere e schiacciava ogni sua sottocorrente, che metteva in discussione questo suo potere, perché eretiche. Già nell’alto medioevo l’ortodossia cattolica era lontana dalla filosofia di Cristo in cui la vita è vista come un foglio bianco e una penna con cui esprimersi al meglio per poi essere giudicati “buoni” o “cattivi” dopo la morte. Ora bastava andare in Chiesa, confessarsi, credere e non bestemmiare. Chi, anziché accettare l’ortodossia pensava qualcosa di più suo, veniva dichiarato eretico dall’ortodossia stessa. Quindi anche un aristocratico ricco e nulla facente era considerato buon cristiano se seguiva quei pochi dogmi necessari.
Mentre inizialmente il cristianesimo era una religione senza dogmi, ora tutto ciò che la Chiesa faceva fare alla gente, con la forza di chi ha il potere del divino, della morte e della sorte, era un dogma. E il Clero ha continuato a essere uno dei più grandi elementi di potere e oppressione per tutta la storia, basti pensare a ciò che hanno fatto nel nuovo mondo: l’imposizione del cattolicesimo e lo smantellamento delle culture del luogo e dei suoi popoli, alla Santa Inquisizione spagnola, al genocidio dei provenzali.
Alla fine della seconda guerra mondiale la Chiesa scomunicò chiunque fosse comunista, chi votasse comunista, appoggiasse o giustificasse i comunisti. Questa fu l’ennesima prova d’ipocrisia che può permettersi di avere solo un forte potere; per l’ennesima volta l’ortodossia clericale per proteggere se stessa toglie libertà a chi gli sta scomodo. Avendo i comunisti una forte mentalità rivoluzionaria, di cambiamento e sovvertimento del potere stesso, per la Chiesa e il suo potere non possono non rappresentare un pericolo che potrebbe destabilizzarli. Questa volta dopo un conflitto mondiale sarebbe stato poco furbo un genocidio, quindi con ancora più faccia tosta e ipocrisia hanno messo mani anche, per l’ennesima volta, in politica. Cosicché una persona non poteva essere credente cristiano e comunista contemporaneamente, e questa minaccia faceva paura alle persone vissute nell’ignoranza della povertà, nell’ignoranza della guerra e del regime fascista. Proprio per tutta questa ignoranza avevano paura di una minaccia della Chiesa, che poteva teoricamente valergli (secondo loro e da un punto di vista religioso) qualcosa dopo la morte. E fu una delle tante ipocrisie e violenze della più longeva superpotenza della storia e della sua ortodossia. “Il potere imputridisce il sangue e oscura il pensiero” [SubComandante Insurjente Marcos]
Ogni potere, qualsiasi potere, ha paura di ciò che lo può sovvertire, e l’unico modo per sovvertire il potere è la cultura, la conoscenza e lo studio per sfuggire all’ignoranza che fa inchinare dinanzi al Re e baciare la mano al Papa, il potere avrà sempre paura di ciò che è rivoluzionario.

-compagno Grimm

 

Charlottesville; proteste, paradossi & denominazioni.

arthA Charlottesville, Virginia, la nuova estrema destra americana si è riunita per protestare contro la rimozione della statua del generale Lee, uno schiavista che combatté per i sudisti durante la guerra di secessione americana.
La decisione di rimuovere la statua era stata presa dal consiglio comunale di Charlottesville
I supremazisti bianchi a cui si sono subito aggregati i membri del Ku Klux Klan e varie organizzazioni della destra razzista e neonazista sono scesi in piazza a protestare portando con loro torce, scudi, mazze e bandiere confederate da sventolare in onore dei “i grandi uomini bianchi che vengono diffamati, calunniati e demoliti negli Stati Uniti” [Jason Kessler, organizzatore della marcia]. Migliaia sono i supremazisti bianchi scesi in campo per “tutelare la loro libertà di espressione”, ma altrettanti sono gli antifascisti che hanno organizzato una contro protesta per combattere l’estrema destra americana e, nel loro corteo, venivano sventolate centinaia di bandiere rosso nere e striscioni con motti e simboli socialisti.
Inutile dire che gli scontri armati tra antifascisti e supremazisti bianchi siano scoppiati subito con una violenza mai vista prima nelle manifestazioni di estrema destra, infatti, oltre a picchiare i contro manifestanti con mazze e bastoni, un uomo, James Alex Fields Jr., ha guidato un auto contro il corteo antirazzista ferendo 30 persone e uccidendone una: Heather Heyer, una donna antifascista di 32 anni.
Il suo assassino è stato fermato poco più tardi dalla polizia. Ma, mentre i crimini d’odio da parte dell’estrema destra diventano ogni giorno più violenti e frequenti, gli uomini dei partiti politici, “mainstream” degli Stati Uniti d’America, ma sopratutto i loro seguaci, condannano solamente l’estrema sinistra per aver risposto violentemente all’attacco razzista perché “hanno negato ai supremazisti bianchi la loro libertà di parola”, come dicono i candidi liberali che vorrebbero dei cittadini di Charlottesville vittime innocenti da usare come strumento per avere voti anziché una più razionale risposta armata della vera sinistra americana, ma soprattutto vogliono un proletariato docile che non alza la testa per difendersi perché, se si è pronti a combattere contro i neo nazisti oggi, si potrebbe essere pronti a combattere contro i capitalisti domani. A parte qualche tiepida parola di Trump, che su Twitter condanna “la violenza da entrambe le parti” e dal sindaco di Charlottesville che descrive la manifestazione di destra “ripugnante”, nessuno, né liberali, né conservatori sono scesi nelle strade per fermare i supremazisti bianchi.
Anzi, difendono addirittura la manifestazione della destra americana dicendo che la rimozione della statua è stato un atto contro la libertà di espressione e contro lo studio della storia in quanto, a detta loro, la rimozione del memoriale del generale Lee sarebbe un pallido tentativo di cancellare la storia e far sembrare ai cittadini della Virginia di non aver mai partecipato alla guerra di secessione. Eppure queste erano le stesse persone che esultavano quando le statue di Saddam Hussein venivano rimosse dai soldati americani durante le guerre del golfo. Erano gli stessi che hanno esultato quando le statue di Lenin, Stalin e Marx vennero rimosse dalle piazze principali russe dopo la Perestroika.
Chi grida che la rimozione della statua è un tentativo di “cancellare la storia” è ridicolo. Non vedo statue di Mussolini o di Hitler nelle piazze italiane e tedesche, ma tutti sappiamo gli orrori che hanno commesso. Karl Popper (1902 – 1994), filosofo austriaco naturalizzato britannico, descrisse questa situazione molto bene grazie al paradosso della tolleranza che afferma che in una società dove la libertà di parola è tutelata bisogna fermare sul nascere i movimenti intolleranti della libertà d’espressione perché questi gruppi politici, senza badare alla libertà di parola che tanto disprezzano, conquisteranno il potere con la forza e non con la democrazia e toglieranno quindi la libertà di parola per tutto il resto della popolazione. Il paradosso ideato da Popper ci spiega come dobbiamo comportarci di fronte a questi movimenti neofascisti e neonazisti: l’unico modo per fermarli è con la forza perché un fascista non ascolta il suo avversario, un fascista fucila il suo avversario.
Negli anni ’20 lo Stato italiano e i vari partiti, di ogni orientamento, facevano poco o niente per fermare il pericolo del fascismo, anzi, a volte i fascisti venivano addirittura finanziati (come quando i piccolo borghesi pagavano le squadraccie fasciste per bastonare i lavoratori ribelli) e sappiamo tutti cos’è successo dopo. Sappiamo tutti della marcia su Roma con cui Mussolini ha preso il potere, e questo è successo solo perché i fascisti non sono stati fermati prima, quando erano meno potenti; oggi si rischia di compiere lo stesso errore. Usare la scusa della “libertà di espressione” per non fermare il dilagamento delle idee razziste e xenofobe di questi gruppi li favorisce soltanto aumentando la possibilità di un governo neo fascista nel futuro.
Se non fermiamo i supremazisti oggi nell’unico modo possibile, con la violenza, ci troveremo a dover fronteggiare un governo supremazista domani.
Un’ultima cosa di cui voglio parlare è come la stampa americana ha chiamato i due schieramenti politici che si sono fronteggiati a Charlottesville: Alt-Right e Alt-left, dove “alt” è l’abbreviazione di “alternative”, alternativo. Mentre per i neofascisti e neonazisti il termine “destra alternativa” può essere considerato corretto visto che questi movimenti si oppongono al capitalismo in favore di un’economia sansepolcrista, al contrario della destra tradizionale, il termine “sinistra alternativa” non ha nessun senso perché da sempre la sinistra si è opposta al capitalismo.
Questa denominazione è un altro tentativo della classe borghese americana di allontanare la classe operaia da posizioni politiche pericolose per il sistema capitalista facendo sembrare questi schieramenti qualcosa di alieno e strano, ma sopratutto simile alla xenofoba e razzista “Alt-Right”. Perché un altro peccato di cui sono accusati gli antifascisti americani e il movimento delle Black Lives Matter (abbreviato in BLM) è quello del cosiddetto “razzismo al contrario”, ovvero razzismo contro i bianchi, ma questa accusa non ha il minimo senso sia perché molti bianchi sostengono entrambi i movimenti politici sia perché i BLM sono nati con lo scopo di di fermare l’oppressione che le comunità afroamericane subiscono dalla polizia, non con lo scopo di sterminare e ridurre in schiavitù le altre razze, obbiettivo di organizzazioni come il Ku Klux Klan che sono i protagonisti delle proteste a Charlottesville.

-compagno F

 

L’ente “stato” nella storia

artdLo Stato. Quante volte sentiamo dire questa parola? Ma cos’è veramente lo Stato? La definizione di “Stato” è “entità giuridica temporanea, che governa ed esercita il potere sovrano su un determinato territorio e sui soggetti a esso appartenenti. La delega e la trasmissione della responsabilità sulla propria esistenza umana – attraverso il voto o l’imposizione violenta – sono la base su cui ogni Stato ha fondamento.” Questo vuol dire che lo Stato è un ente che esercita la propria volontà sulle persone che abitano all’interno di un certo luogo. Questo concetto di Stato esiste da millenni, ma in tutti questi anni una cosa non è mai cambiata: questa istituzione è stata sempre serva dei grandi proprietari, infatti i primi statisti del mondo furono proprio i latifondisti che divennero re e nobili. Per approfondire l’argomento vediamo in dettaglio Roma ed Atene, due società che hanno avuto un enorme impatto su come vediamo l’autorità statale. Il governo romano delle origini era una monarchia, dopo sette re le cui gesta ci sono state raccontate tramite numerose leggende, una rivolta popolare fa fuggire l’ultimo all’infuori delle mura e instaura una Res Publica, una “cosa di tutti”. Questo nuovo ordinamento politico si basava sull’esistenza del Senato: un organo legislativo composto originalmente da 300 membri che si riunivano in assemblea per creare nuove leggi ed eleggere i consoli.
Ma queste 300 persone avevano una cosa in comune: erano tutti proprietari terrieri nei cui latifondi lavoravano per la maggior parte schiavi. Poco spazio politico era riservato alla plebe e nessuno agli schiavi. Ma non si pensi che la plebe se ne stesse con le mani in mano! Vistasi privare della giustizia (i tribunali erano comandati dai patrizi) la plebe si rivoltò parecchie volte per ottenere un minimo di potere decisionale e, come succede oggi negli scontri tra borghesia e proletariato, se non finiva in un bagno di sangue perpetrato dall’esercito statale la plebe guadagnava risultati poco significativi.
La Repubblica cessò ufficialmente di esistere quando Ottaviano prese il potere per sé stesso e inizio l’impero con trono ereditario da padre in figlio. In realtà la Repubblica era già morta molto tempo prima per un male che ha accompagnato l’umanità fino ad oggi: la corruzione.
Il Senato, prima unito per mantenere il potere contro i plebei, ora che questo potere era consolidato si sfaldava sotto i colpi delle liste di proscrizione e degli omicidi politici, a volte compiuti per impedire che il potere sui plebei vacillasse (come l’assassinio dei fratelli Gracchi che volevano fare una riforma dell’agricoltura che sarebbe andata a vantaggio della plebe), a volte per mantenere il potere sugli altri senatori (tutti i colpi di stato in cui qualcuno si auto dichiarò “dittatore a vita”, a cominciare da Silla, sono esempio del “senatore contro senatore”).
Già in tempi antichi vediamo come lo Stato e la divisione in classi sembrino andare a braccetto, ma riguardo ad Atene? A Roma il potere decisionale andava solo ai grandi proprietari, solo loro potevano entrare nel Senato, ma Atene era basata sulla democrazia partecipativa: ognuno (escluse donne, stranieri e schiavi ovviamente) era libero di partecipare alle assemblee ed esprimere il proprio parere sulle questioni statali.
Quello che a prima vista sembra un sistema giusto ed equo, ad una accurata analisi appare com’era realmente: un sistema dove il potere decisionale era posseduto solo da una ristretta cerchia di persone che – come nella Repubblica romana – possedevano enormi latifondi.
Perché? Si chiederà il lettore.
La risposta è semplice: nel largo dominio della città di Atene in cui la maggior parte della popolazione si spostava a piedi era difficile che tutti gli abitanti dei territori sotto l’influenza ateniese riuscissero ad arrivare nell’acropoli in tempo per l’assemblea e, se ci fossero riusciti, avrebbero comunque perduto parecchi giorni di lavoro con il rischio di essere licenziati; quindi solamente i ricchi che non lavorano, o meglio, che guadagnano tramite il lavoro degli altri, riuscivano a partecipare attivamente alle assemblee. Ma il fattore logistico non è l’unico che chiudeva le porte della democrazia in faccia ai più poveri, un ruolo importante lo giocava anche il fattore culturale: nell’Atene antica i sofisti, ovvero i maestri di retorica e filosofia, si pagavano a caro prezzo e solamente chi era ricco, cioè chi possedeva grandi latifondi, poteva permettersi di studiare con loro. Quindi le fasce più povere della popolazione erano sepolte nell’ignoranza e questo era un grande problema perché è più facile venire raggirati da politici che riuscivano a padroneggiare l’arte della retorica.
In conclusione il sistema politico di Atene era in profonda contraddizione con il suo sistema economico e la città “che ha inventato la democrazia” non la ha mai applicata veramente per via del suo sistema economico a cui giovava di più un governo oligarchico.
La “tradizione” di servire solo i grandi proprietari si è mantenuta anche durante il medioevo e il rinascimento con il feudalesimo al suo massimo apice: i nobili amministravano i beni del re o dell’imperatore (non solo campi coltivati da servi della gleba, ma anche tasse e imposte) per diritto di nascita.
Ma sono passati secoli da allora, ormai le corone sono cadute e si è passati a regimi democratici, ora lo stato non dovrebbe essere al servizio del popolo, di tutto il popolo? Nonostante in molteplici costituzioni questo sia il primo articolo esso non viene mai rispettato per via del sistema economico vigente: il capitalismo.
Un governo democratico dovrebbe rappresentare il suo popolo, invece i nostri parlamenti contengono più ricchi e più borghesi in proporzione al numero di parlamentari di quanti ce ne siano effettivamente nel popolo; a peggiorare la cosa ci sono gli astronomici stipendi e vitalizi che ognuno di questi “leader” guadagna che li rendono sempre più vicini ai pochi membri delle classi alte e li allontanano dalle ben più grandi masse operaie e contadine. In questo modo coloro che dovrebbero prendere decisioni per favorire il popolo intero si trovano a favorire solo i pochi membri dei ceti più alti e non la maggioranza di persone appartenenti alle classi povere. Possiamo vedere prove di questo in tutta la storia del capitalismo a cominciare dall’Inghilterra vittoriana, madre della rivoluzione industriale che ha fatto nascere il nuovo sistema economico e di un enorme impero coloniale che si
estendeva per gran parte del mondo. Le colonie sono uno dei modi con il quale il capitalista allarga i mercati in modo da evitare una saturazione degli stessi e quindi una nuova crisi e guadagna manodopera a prezzo più basso perché, per le assurde leggi del libero mercato che tratta gli uomini come merci che si possono scambiare, i lavoratori sono costretti a competere tra di loro a chi si farà sfruttare di più per riuscire ad avere un lavoro e quindi, più proletari ci sono più essi saranno costretti a competere e quindi accettare condizioni di lavoro peggiori in modo che il capitalista di turno possa massimizzare i profitti.
La classe borghese si è quindi servita dell’esercito, una forza dello Stato, per il proprio benessere economico, ma questo uso di forze statali per riuscire ad accumulare più risorse possibili non si fermò quando l’era del colonialismo finì, continua tuttora, a ritmo più serrato di prima e in una maniera più subdola; più subdola perché nel diciannovesimo secolo gli obbiettivi di conquistare per lo sfruttamento delle terre e degli uomini di quelle regioni erano dichiarati, chi combatteva sapeva di farlo per trovare nuove terre alla classe dominante, ma oggi, un paio di secoli dopo, i veri obbiettivi sono mascherati da buone intenzioni, come “portare la pace e la democrazia”, falsi scopi che tutti credono veri grazie all’altra arma della classe borghese: i mass media (per esplorare per bene il legame tra i media e la classe capitalista ci vorrebbe un altro articolo, quindi per il momento non andremmo nel dettaglio quando parleremo di come la classe dominante usa i media a suo vantaggio), cosicché quegli obbiettivi farlocchi sembrino veri in modo da guadagnare il favore del popolo completo, che non può fare a meno di considerarli giusti, anziché della sola classe borghese.
Il “più serrato” era riferito alla tecnica militare che si è evoluta al punto che mandare soldati sul posto ha solo uno scopo intimidatorio visto che possiamo uccidere chi vogliamo (cioè chi vuole la classe borghese) con droni guidati da “casa” e bombardamenti mirati.
L’esempio più eclatante di questo nuovo tipo di imperialismo è il medio oriente, da decadi ormai sotto attacco continuo degli USA e stravolto al suo interno da guerre civili finanziate dalla stesa potenza imperialista che sta attaccando il luogo con la scusa di concludere per sempre queste guerre (è ormai accertato che Ronald Reagan abbia donato armi, mezzi ed addestramento militari ai fondamentalisti islamici negli anni ’80 per fronteggiare i sovietici che, nello stesso periodo, stavano occupando militarmente l’Afghanistan. Questi gruppi da lui aiutati si sono poi evoluti, sfruttando le risorse e l’allenamento ricevuti, nell’ISIS e in Al Qaeda adesso tanto odiati dagli Americani).
Guardando a questi infiniti esempi di imperialismo viene ulteriormente rafforzata la tesi che lo Stato sia solo uno strumento di oppressione tra classi, in questo caso quella capitalista contro quella operaia.
Ma la borghesia non fa uso delle forze armate solo nei paesi stranieri, anzi, la maggior parte delle volte le forze armate vengono usate all’interno del paese della borghesia per evitare che la classe operaia si organizzi e per punirla quando questo accade. Le forze armate usate in questi casi sono quelle che ci dovrebbero “proteggere e servire”: le forze dell’ordine.
L’obbiettivo di arrestare i criminali è solo secondario per questo esercito visto che la polizia è stata storicamente creata come un mezzo dei grandi proprietari per controllare gli schiavi nell’età antica. L’esempio più eclatante di questo tipo di polizia ci viene dal Belgio, in epoca anche abbastanza recente: Leopoldo II (1835-1909), re di Belgio sembrava avere avuto sfortuna con le colonie possedendo solamente il Congo in Africa Centrale, ma la realtà tradì le aspettative visto che riuscì ad arricchire enormemente i capitalisti belgi sfruttando al massimo una delle poche risorse naturali presenti nella nazione africana: la gomma.
Ma per produrre tutta la gomma di cui aveva bisogno schiavizzò quanti più Congolesi possibili (compresi donne e bambini) e li affidò alle cure della sua polizia che era incaricata di non far fuggire gli schiavi e di costringerli al lavoro tramite pene corporali (chi provava a scappare o si rifiatava di lavorare veniva mutilato e con lui la sua intera famiglia).
Al termine del regno di Leopoldo si contano più di 15 milioni di morti tra i Congolesi, ma il commercio della gomma andava così bene che nessuno della classe dominante si è mai lamentato di come erano trattati gli operai che producevano tutta quella ricchezza. Col tempo il ruolo della polizia è cambiato, ma quello che fa è rimasta la stessa cosa: controlla gli operai e li ferma quando questi si organizzano contro la borghesia. Un esempio di questo è il recentissimo e nostrano: il G8 del 2001 a Genova.
Sedici anni fa si riunivano i più potenti capi di stato del mondo nella cittadina della Liguria e migliaia di operai si erano riuniti per protestare contro le loro decisioni, ma ad aspettarli hanno trovato altrettanti poliziotti in tenuta antisommossa che hanno iniziato a riempirli di manganellate, ma la violenza del braccio armato della borghesia è andata oltre ogni limite: nella scuola Diaz, occupata da un folto gruppo di studenti, irruppero 125 poliziotti in tenuta antisommossa. Furono fermati 93 manifestanti e furono portati in ospedale 61 feriti, dei quali 3 in prognosi riservata e uno in coma per non parlare dell’omicidio del compagno anarchico Carlo Giuliani, ucciso da un poliziotto durante la manifestazione. Ovviamente gli autori di questi crimini non sono stati dichiarati colpevoli dai nostri tribunali (anch’essi in mano alla borghesia) perché non c’è motivo per cui la borghesia debba punire i suoi servi se questi non hanno fatto niente contro di lei.
Ho deciso di scrivere del G8 del 2001 per far vedere che i rapporti tra borghesia è forze dell’ordine si mantengono anche in tempi moderni, ma per questo il lettore non deve pensare che nel passato questo genere di rapporto non esistesse. Fin da quando la borghesia è la classe dominante la polizia ha lavorato con essa. Un esempio sono le numerosissime leggi anti socialiste emanate negli scorsi secoli. Un esempio è l’esecuzione di Sacco e Vanzetti, due italiani anarchici emigrati in America, avvenuta all’inizio del ‘900. Nonostante non ci fossero quasi prove che collegassero il duo ad attività terroristiche il giudice scelse per loro la pena capitale perché stavano facendo qualcosa di orribile: stavano organizzando gli operai.
Sempre parlando del Nuovo Mondo posso, anzi sono obbligato a citare il CCA, Communists Control Act, un decreto firmato dal presidente Dwight Eisenhower nel 1954. Questo documento rendeva illegale il Partito Comunista Americano, vietava agli iscritti di ricoprire ruoli nel governo e aveva lo scopo principale di impedire che le idee comuniste si spargessero tra i sindacati. Sia i Repubblicani che i Democratici, due partiti che si dipingono come uno l’opposto dell’altro, votarono a favore del CCA mostrando quanto in fondo non siano entrambi delle marionette nelle mani del borghesia pronti a togliere le libertà civili ai propri cittadini solo perché la pensano diversamente.
E queste persone sono le stesse che vorrebbero insegnare la democrazia al mondo!
Analizzando il ruolo che ha avuto lo Stato e le forze statali da quando sono nati fino ad oggi si capisce come lo Stato non sia altro che uno strumento della classe dominante per controllare quelle a lei subordinate, così è stato nell’era antica la cui economia era basata sulla schiavitù, nel feudalesimo e per ultimo nel capitalismo, dove lo Stato è il braccio armato della borghesia.
Proprio perché lo Stato è uno strumento della classe dirigente cercare l cambiamento attraverso di esso è la cosa più controproducente che si possa fare, è come cercare di affettare la carne tenendo il coltello dalla parte della lama, ci si fa male e non si hanno risultati significativi.
Classi e Stato vanno di pari passo e e una volta abolite le prime, scopo di noi comunisti, il secondo semplicemente diventerà inutile e scomparirà.
– Compagno F

Per il Movimento 26 luglio

artyCuba, l’isola maggiore delle piccole Antille, Cristoforo Colombo vi approdò nel suo primo viaggio il 27 ottobre 1492. Colonializzata dalla Spagna fu meta della traiettoria schiavista che dall’Africa portava nelle Americhe i carichi di umani. Gli indigeni si estinsero rapidamente in un paio di decenni circa, massacrati dalla schiavitù e mescolati con gli Africani, di loro oggi rimangono appena alcuni cibi. Ben presto la classe dirigente formatasi sull’isola, una borghesia nazionale composta da grandi latifondisti, schiavisti e capi militari cominciò a reclamare una maggiore indipendenza dalla Spagna. La lontana Spagna negò riforme economiche e politiche, e gli azionisti della colonia ispanica entravano sempre più in crisi a causa di debiti e mal rendimento dell’agricoltura eccessivamente forzata ( sempre dai coloni ) per una maggiore produzione negli anni passati. Situazione stagnante che per anni sembrò non dovesse cambiare mai. E fu la volta dell’insurrezione armata esplosa il 10 ottobre 1868, capeggiata da Carlos Manuel de Céspedes, noto attivista della piccola borghesia filo-popolare cubana. Quella fu la guerra chiamata, dai cubani, guerra dei 10 anni che appunto finì nel 1879 con una sanguinolenta sconfitta dei cubani insorti e un nuovo patto, o meglio un accordo, con la Spagna che impose nuove leggi più autoritarie sulla libertà di stampa e alcune riforme economiche. Tuttavia, diciassette anni dopo, scoppia nuovamente la guerra civile, stavolta è ben più partecipata e non solo da una piccola borghesia malcontenta ma fu anche alta la partecipazione delle classi meno abbienti e di tutti gli humiliores cubani. Questa grande, nuova, rivolta fu propugnata e animata da colui che fu il suo massimo teorico e propagandista: Josè Martì. Martì figlio una modesta famiglia spagnola ( con antenati greci). Martì a diciassette anni, due anni dopo la fine della guerra dei 10 anni, fu condannato a sei anni di confino a causa delle sue attività patriottiche contro il dominio spagnolo e l’aristocrazia cubana che ne era al servizio. Ne scontò poco più di uno e dal confino fu esiliato, per ironia della sorte, in Spagna. Martì come scrittore fu uno dei più grandi di lingua spagnola, fu oratore, politico, giornalista e grande poeta. Josè Martì, viaggiando tra Stati Uniti e centro america, criticò gli aspetti feudali e razzisti della sua isola (ad appena alcuni anni dall’abolizione della schiavitù). Parlò dei latifondisti padroni di Cuba come ladri di terre del popolo cubano e denunciò senza tregua il bigotto clero reazionario nemico dell’indipendenza cubana, e sopratutto smascherò la politica yankee verso l’isola, preda ambita per gli Stati Uniti fin dai tempi di Adams nel 1820. “Conosco il mostro perchè ho vissuto nelle sue viscere” scrisse degli Stati Uniti. Josè Martì tornerà a Cuba e nel 1895 sarà il vero fomentatore della guerra civile. Morì il 19 maggio 1895 in uno scontro con le truppe spagnole, mentre era in corso, dal mese di febbraio, la guerra d’indipendenza che egli aveva voluto. Ventiquattr’ore prima di morire Josè Martì scrisse una lettera al suo amico uruguayano Manuel Mercado “corro tutti i giorni il pericolo di dare la vita per la mia terra e per il dovere (visto che lo sento e che ho sufficiente animo per realizzarlo ) di impedire in tempo, con l’indipendenza di Cuba, che dilaghino nelle Antille gli Stati Uniti, e opprimano con la forza le nostre terre. Quanto ho fatto fino a oggi e quanto farò è per questo”. Nel 1898 gli Stati Uniti intervennero nella guerra ispano-cubana contro la Spagna, che in breve venne sconfitta. Il governo nordamericano presieduto da Mc Kinley, lungi dal mantenere le proprie promesse, occupò l’isola di Cuba per quattro anni, dal 1898 al 1902. Abbandonò Cuba solo dopo che si fosse formata la costituzione del nuovo stato, sulla quale gli Stati Uniti ovviamente influirono, e sopratutto dopo aver imposto con la forza una clausola umiliante nella costituzione che riconosceva agli Stati Uniti il diritto di intervenire a Cuba ogni volta che lo credesse necessario. In più pretesero il cedimento da parte di Cuba dei territori costieri di Guantanamo ( dove ancora oggi sorge la base americana e il tremendo penitenziario ). Durante il periodo repubblicano di Cuba (1902-1959) l’imperialismo americano sviluppò un intensa politica di penetrazione economica a Cuba. Non fu questo un atteggiamento casuale, già dal 1805 sotto la presidenza di Jefferson il governo degli Stati Uniti si proponeva di impadronirsi di Cuba, e più tardi sotto il governo di Monroe fu previsto che l’isola sarebbe caduta inevitabilmente, come un frutto, nel cesto nordamericano. Evidentemente ritenettero il moento più opportuno e favorevole la guerra ispano-cubana. Frutto di questo indignitoso imperialismo fu l’emendamento Platt imposto dal governo Wood, e unito alla carta costituzionale cubana, citava ” Il governo di Cuba consente che gli Stati Uniti possano esercitare il diritto di intervenire per preservare l’indipendenza e l’esistenza di un governo capace di proteggere la vita, la proprietà e la libertà individuale…” e che ” per porre gli Stati Uniti in condizione di difendere l’indipendenza di Cuba e difenderne il popolo, come per propria difesa, il governo di Cuba venderà o affitterà agli Stati Uniti le terre necessarie, per installarvi depositi o basi navali , in punti determinati che saranno convenuti d’accordo con il presidente degli Stati Uniti”. All’assemblea costituente l’emendamento Platt fu approvato con un margine ristrettissimo, e molte furono le proteste ma gli Stati Uniti avevano annunciato “approvazione dell’emendamento o occupazione militare permanente”. Sul piano politico il vero presidente sarebbe stato l’ambasciatore statunitense all’Avana, e su quello economico non contò che il capitale nordamericano. Sull’isola caraibica dilagavano le compagnie yankee e le loro imprese; la più grande fu la United Fruit Company che per le raffinerie di zucchero acquistò 70.000 ettari di suolo cubano, questa compagnia diventerà poi una vera associazione golpista e squadrista che sotto comando della CIA negli anni ha nei paesi latino americani fatto scoppiare colpi di stato militari. Nella politica cubana si alternavano i due tradizionali partiti ( ovviamente fondati da nordamericani ) il partito liberale e il partito conservatore, tanto simili tra loro quanto il democratico e il repubblicano statunitensi di cui erano una fedele copia. Fu tutto un alternarsi di questi due partiti, presidenti corrotti e incoerenti si susseguivano come Menocal e le sue frodi, Zayas e il generale Machado che divenne presidente e aprì a Cuba un periodo di feroci tirannie, per primo fu lui a impiegare la tortura, il diritto di stupro per il corpo di polizia, l’assassinio politico, la censura sulla stampa e tutto un vasto sistema di repressione militare. Passando il tempo l’isola di Cuba era il giardinetto degli statunitensi che vi passavano i week end in spiaggia e poi la sera andavano a l’Avana dove, sempre compagnie yankee, avevano messo su decine di grandi bordelli dove le ragazze costavano pochissimo e il cliente aveva il pieno diritto di trattarle a proprio piacimento. Ci sono stati casi di statunitensi che rapivano le giovani prostitute cubane e se le portavano come souvenir negli States continuando così a usarle per il proprio appagamento sessuale. Ed anche se meno noto, vi fu anche il ristretto fenomeno di bordelli maschili a Cuba dove vi stavano veri e propri schiavi legali, donne e uomini selezionati in base al fisico ritenuto appagante o meno. Mentre le città cubane erano invase da questa ozio sfrenato dei benestanti borghesi, nelle campagne la povertà era sempre maggiore. I “campesinos” ovvero i contadini cubani, si impoverivano sempre di più fino a arrivare a un tasso di mortalità infantile nelle campagne gigantesco pensando che 3 bambini su 5 morivano prima dei 6 anni. L’analfabetismo poi aveva colpito tutti. Questi erano i frutti dell’imperialismo nordamericano e capitalista. C’era un partito all’opposizione, il partito ortodosso, che negli anni fece crescere la sua fama. Era un partito chiaramente di sinistra e con idee che andavano dal patriottismo al liberalismo, potrebbe essere paragonato al nostro partito radicale ma questo non era centrista e era interamente di sinistra progressista. Eduardo Chibàs, presidente del partito ortodosso, conduceva una propaganda contro le vecchie tare della politica nazionale e con proposte di riforma che interessavano particolarmente l’agricoltura. Questo tentato e lento cambiamento fu reso vano, frustrato da un organizzazione fascista, l’ABC, favorevole all’instaurazione di una sanguinosa dittatura militare capeggiata da un ex sergente dell’esercito del tiranno Machado, il filo-americano Fulgencio Batista. In questo periodo, tra anni trenta e quaranta, si formava l’ideale politico di un giovane cubano, nato nel ’26, figlio di immigrati andalusi, maggiore tra i suoi fratelli e studente di legge: Fidel Alejandro Castro Ruz. Egli fu attratto dal partito d’opposizione, il partito ortodosso, parteggiava per le sue brande più a sinistra e interessato alla storia dell’indipendenza cubana e di Josè Martì, fece parte di alcuni gruppi di patrioti a scuola, da lui in futuro giudicati come estremamente nazionalisti per i suoi gusti, lui da sempre internazionalista convinto. Sposato nel 48, nel 1950 completa i suoi studi in legge con il massimo dei voti. L’amicizia, in quegl’anni, con un ragazzo russo di idee bolsceviche lo condizionò molto, anche se non si dichiarava ancora socialista, lo portò a farsi idee riguardo la proprietà statale che lo portarono a criticare sotto alcuni aspetti il partito ortodosso. Infatti il partito ortodosso cubano, le cui branche più liberali professavano l’anticomunismo, non aveva grossi interessi di svincolarsi dall’imperialismo statunitense. Questa linea di passività sostenuta dal partito ortodosso non si conciliava con gli ideali di patriottismo spirituale e con la concezione che della lotta politica a Cuba aveva l’avvocato Fidel Castro. Era necessario affrontare i problemi gravi ( secondo Castro ) come quello della penetrazione economica statunitense, dell’asservimento politico del governo dell’Avana al governo di Washington, la discriminazione raziale, la prostituzione, lo sfruttamento e la povertà dei contadini nelle campagne, la disoccupazione e l’analfabetismo dilagante. Ai gesti ampi e solenni c’era da opporre l’azione delle masse accompagnata da modifiche profonde nella struttura nazionale. Nel 1952, al termine del secondo governo di Batista, vi sarebbero state le nuove elezioni alle quali stavolta Batista non avrebbe potuto partecipare. Ma il 10 marzo Batista e la sua corte di politicanti, perduta l’occasione elettorale, approfittarono del malcontento dell’esercito per servirsene come strumento per giungere al potere. Con un colpo di stato militare Batista torna al potere nell’isola creando malcontenti tra i cubani, e tante furono le manifestazioni di protesta tutte represse con la violenza dalla polizia. Fidel rimase indignato da ciò che era successo, lui era già un nome noto per gli ortodossi e gli avvocati a l’Avana, e con l’aiuto di suo fratello Raùl ( medico e comunista ) e altri compagni espose denuncia contro i fatti del 1o marzo. Ne la prima ne la seconda denuncia che espose furono minimamente considerate. Fidel Castro raggruppò molta gente che stava dalla sua parte e con questi progettò le azioni del 26 luglio riunendosi in assoluta segretezza. L’attacco ebbe inizio il 26 luglio alle ore 5.15 del mattino sia a Bayamo che a Santiago de Cuba, e uno dopo l’altro caddero nelle mani dei ribelli gli edifici che circondavano le caserme. Venne però a mancare, in un momento decisivo, la metà del grosso degli uomini, la migliore come armamento, che, per un deprecabile errore sbagliò strada all’ingresso della città. Abel Santamarìa con 21 uomini aveva occupato l’ospedale civile, Raùl Castro con 12 uomini aveva occupato il palazzo di giustizia, Fidel con 95 uomini aveva il compito di attaccare la caserma. Giunse Fidel con i suoi uomini, e un avanguardia di 8 che aveva forzato il posto di guardia numero 3, fu lì che cominciò il combattimento. Catturarono da subito una ventina di prigionieri, intanto Ramiro Valdès, Josè Suàrez e Jesùs Montané riuscirono a penetrare in una baracca e a trattenere prigionieri circa 50 soldati ( questi dichiararono poi in tribunale di essere stati trattati con estremo rispetto ). Alla fine degli scontri però i ribelli, i moncadisti, vennero sconfitti per il vantaggio numerico dei militari e per le migliori attrezzature da combattimento. Gli uomini di Fidel erano armati solo di fucili calibro 22 e quando lui si accorse che erano inutili ulteriori sforzi cominciò a far ritirare gli uomini a gruppi di 8 e 10. Fidel dirà ” Le nostre perdite, nel breve combattimento, erano state insignificanti; il 95% dei nostri morti si ebbe dopo che fu cessato, per la crudeltà e la ferocia con cui fummo trattati”. Infatti i ribelli catturati furono torturati, seviziati e assassinati la maggior parte nelle loro celle in attesa del processo, da uomini di Batista. Furono molti i tentativi di assassinare Fidel che era stato messo in una cella d’isolamento. Dal momento stesso della loro traduzione alla prigione provinciale d’oriente nella notte del 1 agosto 1953, gli assalitori presero l’impegno di attivare canali di comunicazione tra loro e con il loro leader, tenuto in isolamento. Grazie all’ingegno dei combattenti incarcerati, all’aiuto degli altri reclusi e di alcune guardie i rivoluzionari trovarono il modo di attivare un flusso di comunicazioni e informazioni che diede loro la possibilità di prepararsi ad affrontare la provocazione inscenata dal processo a cui sarebbero stati sottoposti. Fu in questo modo che Fidel Castro riuscì a sapere che cosa accadde e cosa venne fatto alla maggior parte dei compagni assalitori dopo le azioni del 26 luglio. Il 21 settembre, quando si svolse la prima udienza del processo,Fidel disponeva già di una considerevole quantità d’informazioni che utilizzò per contrastare la versione ufficiale dei fatti e denunciare gli orrendi crimini commessi contro i suoi compagni. Questi elementi, più quelli che riuscì a ottenere durante le 2 sessioni del processo a cui potè solo assistere, costituirono le prime basi sulle quali, in carcere, cominciò a costruire il suo discorso di autodifesa. Nonostante il rafforzamento del regime di isolamento a cui fu sottoposto a partire dal 25 novembre a Castro non mancarono notizie sugli sviluppi del processo ai suoi compagni. Si dedicò a preparare scrupolosamente quello che sarebbe stato, più che un discorso di autodifesa, un discorso di lotta e di denuncia. Secondo la testimonianza di altri imputati che nelle ultime ore condivisero la cella con Castro, Fidel scriveva sempre , leggeva e rileggeva, correggeva lo scritto, lo rileggeva, lo memorizzava, scriveva ancora e di nuovo tornava a leggere e memorizzare, e così fino a poche ore prima dell’udienza in cui sarebbe stato giudicato. Quella mattina,mentre si recava al processo, tutte le carte rimasero in cella e Fidel portò con se solo una nota relativamente estesa sull’indipendenza cubana. Aveva memorizzato il contenuto della stragrande maggioranza delle altre note, che poi a seguito andarono perdute. Il discorso di Fidel a quell’udienza durò oltre 3 ore quasi ininterrottamente. Concluso il processo con la condanna di Fidel a 15 anni di carcere, il leader dei ‘moncadisti’ fu recluso, con i suoi compagni, in isolamento in un salone del padiglione che serviva da ospedale nel presidio di Isla de los Pinos. Lì i rivoluzionari imprigionati crearono una piccola biblioteca e organizzarono corsi di formazione culturale, politica e economica. Lì Fidel cominciò a ricostruire a memoria il discorso pronunciato a Santiago de Cuba, lavoro faticoso che continuò in assoluto segreto dopo che fu separato e confinato in una cella di isolamento, nel febbraio del 1954. Già a quel tempo Fidel e i ‘moncadisti’ avevano trovato e perfezionato vari tipi di comunicazione tra di loro e all’esterno del carcere. Uno di questi consisteva nel scrivere innocue lettere ai famigliari o amici che superavano facilmente il controllo e la censura, inserendo tra le righe linee di testo scritte con il succo di limone, invisibile a prima vista che poi diventava color marroncino caramello se si riscaldava il foglio con metodi adeguati. In una di queste lettere, quella del 17 aprile del 1954, Fidel scriveva a Melba Hernàfernandez, una delle donne che parteciparono all’azione del 26 luglio del 1953, che fu rilasciata in febbraio, per annunciarle che le farà conoscere “ il mezzo per comunicare con me ogni volta che c’è ne sarà bisogno o che lo desideri” e la ammonisce “ mantieni il più assoluto riserbo informando solo Yeyé ( Haydée Santamarìa, un altra moncadista) quando ritorna”. Nella stessa lettera Fidel segnalava “ non si può abbandonare la propaganda neanche per un momento, perché è l’anima di tutta la nostra lotta. La nostra lotta deve mantenere la propria caratterizzazione e insieme adattarsi alle diverse circostanze. Bisogna sempre denunciare senza sosta i crimini e il marcio della politica”. È un chiaro riferimento al suo progetto di ricomporre, far uscire dal carcere il suo discorso di autodifesa, che definisce come “ un opuscolo di importanza decisiva per i suoi contenuti ideologici e le sue dure accuse, per cui chiedo che li venga prestato il massimo interesse”. Nonostante tutto, Fidel Castro e i suoi compagni furono tutti condannati, Fidel a 15 anni.
Il procedimento di questa storia la conosciamo tutti, l’anmistia e l’esilio dei carcerati, gli addestramenti in Messico, lo sbarco del Granma da cui sbarcarono 82 uomini di cui in poche ore solo 12 ne rimasero vivi. La grandissima partecipazione popolare alla rivoluzione, il compagno comandante Ernesto “Che” Guevara e le sue battaglie. La presa di Santa Clara, l’entrata a l’Avana e la fuga di Batista, la guerra fredda, il senso di novità e alternativismo che diede questa rivoluzione rispetto a quelle dell’est Europa e Asia, le missioni internazionaliste e le loro vicende. Non ho voluto stavolta scrivere un memoriale di una delle più famose, e grandi, rivoluzioni popolari ne una biografia sintetica dei suoi leader. Ho voluto scrivere e descrivere il contesto che precedette tutto ciò per capire il perché degli avvenimenti successivi. Viva Cuba libre! Hasta La Victoria Siempre.

-compagno Grimm

in memoria di Paolo Borsellino

In memoria dei 25 anni dalla morte del giudice Paolo Borsellino ho voluto preparare un’intervista per una mia cara amica, Adele, nonché pronipote del dottor Borsellino: ci racconterà qualcosa della figura di suo zio Paolo e (come spero anche voi nei commenti) ci darà un suo parere sulla lotta alle mafie.
Vi lascio all’intervista.

 

1) QUAL’ERA IL TUO RAPPORTO DI PARENTELA COL DOTTOR BORSELLINO?
Paolo Borsellino era il fratello minore di mia nonna materna.

 

2) QUAND’È STATA LA PRIMA VOLTA CHE NE HA SENTITO PARLARE? CHI TE NE HA PARLATO E COSA TI DISSE SU DI LUI?
Essendo un parente così prossimo a mia madre e ai suoi fratelli, non c’è stato un determinato giorno in cui me ne hanno parlato. Sin da quando sono nata e prima, le storie sullo “zio paolo” erano e sono ancora adesso un argomento ben accetto, soprattutto per chi come me, sfortunatamente, non è riuscito a conoscerlo.

 

3) COSA HAI SENTITO IN QUEL MOMENTO? COSA HAI PROVATO NEL SAPERE DI ESSERE IMPARENTATA CON UNA FIGURA TANTO IMPORTANTE?
Di certo ho provato tanto orgoglio e senso di responsabilità. Non mi sono mai vantata di essere imparentata con Paolo Borsellino, ma sono sempre stata orgogliosa che ci siano state persone che hanno messo la loro vita davanti tutto come lui, quali il suo collega nonché ormai fratello Giovanni Falcone.

 

4) TI HANNO MAI RACCONTATO DI COME SI COMPORTAVA NEL PRIVATO?
Io, personalmente, ho conosciuto solo quell’aspetto per tanto tempo. Mi veniva detto di come nessuna foto raffigurava il suo sorriso, che molti non conosceranno. Degli scherzi che si divertiva a fare a mia nonna, sua sorella, facendo ridere tutti i sette nipoti. È assolutamente quello l’aspetto che mi piace più ricordare di mio zio Paolo.

 

5) HA AVUTO INFLUENZA LA SUA FIGURA NELLA TUA VITA E IN QUELLA DEI TUOI FAMILIARI?
Nei miei familiari di certo si, visto che lo hanno conosciuto personalmente e in tale modo hanno subito la strage del 1992. Io, che sono nata dieci anni dopo, posso dire che mi ha lasciato qualcosa di molto importante e per me prezioso: un esempio di vita.

 

6) PARLIAMO ORA DEL SUO LAVORO: CONOSCI NELLO SPECIFICO IL LAVORO CHE FACEVA?
Paolo Borsellino era un magistrato impegnato in prima linea nella lotta alla mafia. Certamente, molti dettagli ancora li devo scoprire, ma, come precedentemente ho detto, ho bene impresso il ricordo dello “zio Paolo”.

 

7) PENSI CHE QUELLO DI PAOLO BORSELLINO (COME DI TANTI ALTRI GIUDICI, MAGISTRATI e CIVILI) SIA STATO UN SACRIFICIO NECESSARIO PER SPINGERE PIÙ PERSONE ALLA RESISTENZA CONTRO LE MAFIE?
Mi piace pensarlo, altrimenti la sua morte, i suoi sacrifici e il suo impegno, come appunto quelli di molti altri sarebbero stati inutili e da 25 anni a questa parte, si cerca di dare un messaggio chiaro in proposito.

 

8) TRAGEDIE COME QUESTE, SECONDO TE, SI SAREBBERO POTUTE EVITARE?
Sì, Senza dubbio. Se lo Stato avesse realmente voluto combattere la mafia, avrebbe protette persone e magistrati come Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e le loro scorte.

 

Bene, ringrazio di cuore Adele per averci concesso l’intervista. Concludo citando proprio Borsellino che, rivolto a noi giovani, dice: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.”
Continuate a lottare contro la mafia, contro il fascismo e per i proletari liberi!
¡Hasta siempre!
-compagno Lupoartq